Un medico in grado di prestare attenzione alle emozioni dei propri pazienti, sostenendoli nella conoscenza della malattia e della terapia prescritta, ha effetti positivi sulla prognosi, almeno quanto alcune terapie farmacologiche considerate standard.
Lo rivela l’analisi di diversi studi clinici, che documenta per la prima volta in modo rigoroso grazie all’analisi statistica di parametri come la pressione arteriosa o i livelli di glicemia, l’importanza della qualità del rapporto medico-paziente.

Un trattamento clinico corretto è lo strumento più efficace per il successo di una terapia, ma non bisogna trascurare il rapporto tra medico e paziente. A stabilirlo non sono più il senso comune o l’esperienza sul campo, ma una nuova meta-analisi pubblicata su “PLOS ONE” da John Kelley e colleghi del Massachusetts General Hospital, che ha documentato per la prima volta in modo rigoroso che specifiche tecniche per migliorare la relazione umana possono davvero fare la differenza per la prognosi di una malattia.

Finora la maggior parte degli studi sul rapporto medico-paziente è stata effettuata su dati clinici già registrati e senza la possibilità d’intervenire da parte degli sperimentatori. Questo tipo di ricerche non permette di verificare se le differenze osservate in un dato parametro siano in grado di produrre qualche cambiamento in termini di prognosi, e ha quindi una validità scientifica relativa. Altri studi invece hanno raccolto le valutazioni dei pazienti su quanto avessero compreso riguardo alle indicazioni dei medici o sul grado di soddisfazione per le cure ricevute, ma senza valutare se ci fossero miglioramenti dello stato di salute.

Per arrivare a un alto grado di significatività statistica e quindi di rigore scientifico sull’influenza del rapporto tra medico e paziente nel percorso di cura, Kelley e colleghi hanno analizzato le banche dati della letteratura medica denominate Embase e Medline, alla ricerca di studi clinici più rigorosi dal punto di vista metodologico, cioè quelli randomizzati e controllati, in cui i pazienti coinvolti sono assegnati in modo casuale a un gruppo di trattamento, oppure al un gruppo di controllo. Il “trattamento” in questi casi non era unaterapia in senso stretto, ma un insieme di specifici interventi per migliorare il rapporto tra medico e paziente, come per esempio training dedicati ai medici stessi per abituarli a mantenere il contatto visivo con i pazienti e a prestare attenzione alle loro emozioni, oppure su strategie motivazionali.

Sono così stati selezionali 13 studi clinici effettuati in Europa, Stati Uniti e Australia, e pubblicati tra il 1997 e il 2012, su pazienti affetti da diverse malattie quali ipertensione, diabete od osteoartrosi. Da questi studi sono poi stati estratti e analizzati i risultati clinici in termini di calo ponderale, nel caso di soggetti sovrappeso, oppure di riduzione della pressione sanguigna, dei livelli glicemici o lipidici nel sangue, o ancora le risposte fornite dagli stessi pazienti a questionari grazie a cui valutare il grado di dolore associato alla malattia. Dall’analisi è emerso un effetto positivo della qualità del rapporto medico-paziente, di limitata entità ma comunque statisticamente significativo.

“L’effetto trovato è piccolo, ma questa è la prima analisi dei risultati combinati di studi precedenti a mostrare che i fattori relazionali possono fare la differenza in termini di risoluzione clinica delle patologie”, ha spiegato Helen Riess, coautrice dello studio.

Gli autori sottolineano che l’entità degli effetti osservati, per quanto limitata, è superiore a quella trovata in alcuni studi sull’effetto dell’aspirina nel ridurre l’incidenza dell’infarto del miocardio o sull’influenza delle statine sul rischio di eventi cardiovascolari.

“I nostri risultati mostrano che gli effetti benefici di una buona relazione medico-paziente sulla prognosi sono dello stesso ordine di grandezza di molti trattamenti medici standard”, ha aggiunto John M. Kelley, coautore dell’articolo. “Molti di questi trattamenti medici, per quanto importanti, devono fare i conti con gli effetti indesiderati. Un buon rapporto medico-paziente invece non ha alcun tipo di controindicazione”.

[credits: Le Scienze]

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